
La mancanza di Beppe Vessicchio dalle ultime due edizioni del Festival di Sanremo ha fatto tanto chiacchierare i media sugli ipotetici perchè, ma è notizia recente che lo storico direttore d’orchestra sarà il nuovo produttore artistico dello Zecchino d’oro, manifestazione che quest’autunno celebrerà 60anni, in onore dei quali è uscito un triplo cd che contiene 60 canzoni in versione originale, con tutti i classici come Il pulcino ballerino, Popoff, Quarantaquattro gatti, Il valzer del moscerino, fino a brani più recenti come Il coccodrillo come fa?, Le tagliatelle di Nonna Pina e Quel bulletto del carciofo. Premesso che il direttore artistico del festival dei piccini è Carlo Conti di cosa si occuperà il Maestro Vessicchio? Lo racconta in una intervista rilasciata a Repubblica.it che riportiamo:
Cosa ha fatto, maestro?
“Ho fatto parte della commissione che ha ascoltato i provini, cioè le canzoni abbozzate, e selezionato le 12 che saranno in gara. Adesso arriva la cosa più difficile, scegliere i cantanti”.
Non funziona al contrario di solito?
“Non allo Zecchino d’oro. Per un motivo semplice: i cantanti hanno le voci uguali, sono tutte voci bianche. Per cui bisogna scegliere il bambino più giusto per ogni brano”.
Lei ha circa l’età di questa manifestazione. Che ricordi ne ha da piccolo?
“Parecchi, ovviamente. Il buon Cino Tortorella che faceva Zurlì, musiche come Fammi crescere i denti davanti e 44 gatti. Certo, di musica non sapevo nulla, ma istintivamente capivo la forza di quelle musiche. Non a caso le ricordiamo tutti, quelle canzoni, perché tutto quel che sopravvive ha un valore indiscutibile, che magari al momento si capisce poco. Un po’ come Bach”.
E che ci azzecca Bach con lo “Zecchino”?
“Musicisti che abbiano fatto la musica di Bach chiamandosi Bach ce n’erano tantissimi, parecchi dei suoi figli anzitutto. Però ci si ricorda solo di lui. Segno che è solo la sua musica quella così forte da meritare di essere ricordata”.
Ma la musica per i bambini è più semplice di quella per i grandi.
“Lo dice lei. Bisogna dire cose con meno elementi, mantenendo la forma canzone. E rivolgersi a un pubblico di bambini non le leva valore. La semplicità è la cosa più difficile. “Ho impiegato una vita per imparare a dipingere come un bambino”, diceva Picasso”.
C’è differenza tra “Sanremo” e lo “Zecchino”?
“In un certo senso no, perché sono appuntamenti canonici per tutta Italia. Ovviamente cambia il pubblico, ma è un po’ come se fossero feste comandate, tipo Carnevale, Pasqua, Natale. Per me in particolare Sanremo resta il mio giardino preferito”.
Al quale però non si dedica da un paio d’anni. Quest’anno perché aveva scritto con Angelo Carotenuto il libro “La musica fa crescere i pomodori”. Insomma, niente giardino per darsi all’orto.
“E devo dire che pubblicarlo in concomitanza con la gara è stato un grandissimo colpo promozionale, inatteso. Quando si è capito che non sarei andato al festival, mi hanno cercato tutti i giornali, su Internet sono nate sollevazioni popolari che mi hanno fatto estremo piacere perché sono state spontanee. E ho scoperto di essere bipartisan, apprezzato da tutti. Ma la verità su Sanremo è che non mi aveva cercato nessun cantante, me ne sono accorto tre settimane prima, quindi ci sono potuto andare da persona qualsiasi. Un’assenza presenza. E sono stato contento di presentare il libro al teatro del casinò, dove si tenevano le prime edizioni e dove si sono esibiti Modugno, Tenco, Armstrong”.
Trapela nostalgia per un Festival meno baraccone dell’attuale.
“È da tempo un festival della tv, tanto che la Rai paga i discografici quando dovrebbe essere il contrario forse. Però io mi diverto sempre quando dirigo sul podio dell’Ariston”.
Nessun pentimento? Lei è pur sempre l’uomo che ha diretto Scanu in “Per tutte le volte che”, quella del fare l’amore in tutti i luoghi e in tutti i laghi.
“Vede che se la ricorda? Questo deve fare una canzone, farsi ricordare. Poi le assicuro che il provino era davvero bello. Scanu pagò l’essere stato il primo a venire da un talent show. Così come pagò la vittoria, che a volte non fa bene, anzi è un danno. Pensi ai Jalisse, a quanto furono linciati”.
Ma insomma non si è mai vergognato di qualche canzone che ha diretto?
“Le rispondo così: non sempre faccio quel che amo, ma amo sempre quel che faccio”.
Gabbani le è piaciuto?
“Direi che la canzone aveva tutti gli ingredienti che servono per il successo: orecchiabile, divertente, ha fatto discutere, c’era l’invenzione scenica del gorilla. Che altro?”.
Chiudiamo tornando allo “Zecchino”. Quale canzone le sarebbe piaciuto dirigere all’Antoniano?
” Volevo un gatto nero. I gatti sono animali magici. E poi io ho un gatto. Gatto”.
In che senso, scusi?
“Semplice: è un gatto che ho chiamato Gatto “.
Redazione
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